Cuore di Tenebra - Joseph Conrad

C'è un intero genere della Grande letteratura basato sull'attesa, su un sentimento gravido di inquietudine che qualcosa stia per succedere, il presentimento di eventi che modificheranno radicalmente le fondamenta del mondo che abitiamo. A questo universo si iscrive idealmente "heart of darkness" di Conrad, e del suo Marlow, scrutatore di quell'oscurità che cercava di stingere.
Non l'ansia di possesso e dell'appropriazione che da sempre governa il mondo occidentale, ma un sentire più volte evocato col nome di Uneasiness, qualcosa che in inglese suona come un misto tra disagio, ansia e un pungolo allo stesso tempo, è la molla che spinge l'esploratore di altri mondi a partire.
Così Marlow si imbatte nella sua missione in Congo come se ne andasse del proprio destino e della propria stessa salvezza. "La Compagnia" gli affida il compito di riportare sotto la propria influenza i traffici in un'area dell'Africa profonda, e ricondurre in patria un prezioso carico di avorio. Ma il fiume anonimo che Marlow solca è lo stesso che lo travolge e lo marchia in maniera indelebile.

La natura è indomita, respingente, quando non apertamente ostile: "We called at some more places with farcical names, where the merry dance of death and trade goes on in a still and earthy atmosphere as of an overheated catacomb; all along the formless coast bordered by dangerous surf, as if Nature herself had tried to ward off intruders; in and out of rivers, streams of death in life, whose banks were rotting into mud, whose waters, thickened into slime, invaded the contorted mangroves, that seemed to writhe at us in the extremity of an impotent despair" (una delle più incredibili e meravigliose righe di prosa di tutti i tempi!!). Le certezze e la legge dell'occidente sfumano nei flutti, niente è dato tra i selvaggi perché tutto è da conquistare. Emerge a poco a poco il vago sentore che quei mostri, primitivi in piena libertà non siano disumani, ma qualcosa di primordialmente umano, troppo umano, parafrasando Nietzsche.
Occorre affrontare il selvaggio senza le incrostazioni del pensiero occidentale, porsi faccia a faccia di fronte a quella sfrontata verità che lì davanti si manifesta attraverso uomini nei loro stati emozionali puri di gioia, paura, dolore, devozione, coraggio e ira, lontano dalla corruzione e dalle sovrastrutture del mondo da cui proviene.
Quella verità essenziale, genetica, che è in grado di toccarti come solo una nuova venuta al mondo. Ora poteva entrare in connessione con Kurtz, la canaglia che stava cercando, colui che sottraendo il carico alla Compagnia, sedotto da quella terra che illumina dentro la nostra porzione di oscurità selvaggia, aveva fondato nell'Africa profonda una colonia di selvaggi.
"His need was to exist, and to move onwards at the greatest possible risk, and with a maximum of privation". Impossibile non scorgere qualcosa di essenzialmente umano in queste parole, nel nostro volgere donchisciottesco con furore eroico verso un nuovo magnifico quanto tragico fallimento.
Kurtz è un uomo che cerca con tutte le forze di affermare la propria esistenza a discapito della propria stessa salute. L'uomo, il cui fascino e carisma magnetico ha saputo sedurre quei mostri incivili. Ma stabilire empatia con un uomo siffatto, significa abbandonare le proprie certezze, i luoghi comuni del proprio comfort mentale, se ne accorgerà presto Marlow. Quella smisurata tirannia esercitata sul proprio animalesco e primigenio sé, è stata anche la stessa plastica forza che ha saputo ammansire temporaneamente i selvaggi, e ora ne scuote le membra malate, quasi stanche e provate da tanto sforzo. Ciò che squarcia la propria anima è il grembo materno di ideali e fantastici eventi, scriveva Nietzsche nella Genealogia della Morale. E, quasi come un allegoria dantesca, la mèta del viaggio di Marlow coincide alla fine col culmine dell'escursione nelle profondità dell'animo umano. Il cuore di tenebra si svela in tutta la sua plumbea necessità nell'incontro con Kurtz. Tutto presuppone e implica l'abominio profondo che l'ultima esclamazione proferita da Kurtz voleva significare, appena prima dell'apocalisse del proprio mondo. Quella di un'oscurità selvatica, animalesca, primordiale da egemonizzare dentro e fuori di noi, per non lasciare che sia essa a divorarci lentamente, e pure quella della lotta che si intraprende con essa, che, in fin dei conti, non è immune da questo stesso orrore, ma rimane l'unica verità che la letteratura possa aspirare a narrare.
"Ho lottato con la morte. È la contesa meno eccitante che si possa immaginare. Avviene in un grigiore impalpabile, con nulla sotto i piedi, con nulla intorno, senza spettatori, senza clamore, senza gloria, senza il grande desiderio della vittoria, senza la grande paura della sconfitta, in un clima malsano di tiepido scetticismo, senza molta fede nella propria causa, e ancor meno in quella dell'avversario".

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