La casa di Jack (The House that Jack built) - Lars Von Trier

"Non c'è dell'oscuro in noi perché abbiamo un corpo, 
ma noi dobbiamo avere un corpo perché c'è dell'oscuro in noi"
(G. Deleuze, La piega)


Come e quanto lo fu per Philip Dick, forse anche per Lars Von Trier, nella Casa di Jack, vivere significa essere cacciati. Come per lo scrittore americano, anche per il regista si tratta sempre di provare a sfuggire alla miseria del nostro guscio (e forse lo stesso cinema, come ogni forma di narrazione, ne è uno dei tentativi più alti), ma quando poi questo tentativo fallisce inesorabilmente, tutti siamo ricondotti più o meno violentemente al guscio che abitiamo. Perché, forse, a noi stessi non scapperemo/scamperemo mai, se non all'ultimo momento.
Siamo i nostri corpi, e i corpi nascondono in maniera oscura le nostre velleità. Trier parla chiaro, siamo circondati dalla materia che ci costringe e ci violenta; e un cric può venirci incontro come un destino piuttosto che come un'opzione. La materia punge, gli altri corpi ci esortano, ci solleticano; ci affettano in molti modi direbbe Spinoza. Nel nostro quieto vivere siamo continuamente sottoposti ad incontri, ad "incidenti". Un mondo che non esiste al di fuori dei suoi esperimenti. Non c'è alcuna predeterminazione, nessuna legge o campionario di regole, il caos regna, i rapporti tra i corpi sono ricondotti al violento dis-ordine primordiale. Tiger Tiger, buring bright... Il killer di Trier incontra le sue vittime sulla strada, la pioggia lava via le sue tracce. Allontanare temporaneamente il dolore deriva dal saper imporre il proprio marchio, il marchio della tigre di Blake, ma nuova luce da cui siamo colpiti allunga l'ombra delle passioni tristi, e allora bisogna agire di nuovo per vincere il tarlo dell'inquietudine. Dominazione, asservimento e appropriazione reggono l'orizzonte degli uomini, e colui che uccide è più vicino all'artista perché comprende con maggiore pienezza di coscienza che niente è vero, se non che la stessa verità è plasmabile e che la realtà è di chi se ne appropria.
L'uomo è il racconto di un goffo e fallimentare tentativo di affrancamento dalle sue proprie catene della carne e della materia che lo compongono e lo informano. Ovunque l'uomo è tiranneggiato dalla materia, ovunque egli ingaggia con essa una lotta dal rovinoso, quanto scontato esito. Il racconto di questa lotta, da secoli, siamo soliti chiamare col nome di arte. Come le imperiose cattedrali gotiche attraverso l'invenzione del sesto acuto si elevano verso Dio, così l'artista-killer taglia, falcia, espunge, esplora le potenzialità della materia per ricavarne la sua differenza. Così, Glenn Gould si eleva sulle note del suo piano in uno pseudosolfeggio psicotico a cui il suo stesso strumento pianoforte non riesce a star dietro, proprio come lo stesso Trier esplora tutte le possibilità della camera e della narrazione oltre la convenzione filmica. Il genio plasma la casa con la propria materia per non confondersi con essa, ma, da ultimo, soffre di non poter far fuori la sua stessa carne ed elevarsi a puro spirito sopra di essa. Non c'è una Gerusalemme celeste e una Gerusalemme terrena, ma due piani inseparabili della stessa casa. L'artista crea e soffre di ciò che crea. L'artista patisce la sua stessa reificazione. Da questo stesso processo sorge la sua coscienza: l'interpretazione della sua opera. Virgilio. 
Trier è tutt'uno con gli stereotipi di nazista, misogeno e misantropo coi quali si accompagna, l'aura, l'icona che lui stesso crea, lo eleva e, allo stesso tempo, lo zavorra.
L'artista killer, allora, è costretto, novello Sisifo, ad aggrapparsi alle dure pareti dell'Inferno alla ricerca della propria salvezza quanto inesorabilmente a ricadere sulla pesante e plastica colata lavica che dal cuore della terra a tutto da forma. Per tornare finalmente ad appartenere egli stesso al Caos inorganico che nutre il Cosmo.

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