Black Box - Emmanuel Osei-Kuffour

"E chissà che la morte, anziché implosione, sia esplosione e stampo, da qualche parte, tra i vortici dell'universo, del software (che altri chiamano anima) che noi abbiamo elaborato vivendo, fatto anche di ricordi e rimorsi personali, e dunque sofferenza insanabile, o senso di pace per il dovere compiuto, e amore."

U. Eco, In cosa crede chi non crede? 

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In altre occasioni mi è capitato di riflettere su un paradosso molto importante della teoria della conoscenza. In particolare mi riferisco a quel tema ampiamente dibattuto dalla filosofia moderna e dalla neuropsichiatria, ovvero quello dell'ipostatizzazione della mente, degli stati mentali e dei suoi derivati, la tendenza, cioè, di trattare idee, parole e memorie individuali come realtà astratte dai corpi individuali e storici che li pensano o li dicono. Il film è una brillante narrazione di come tutto possa generare esperimenti fantasiosi con esiti tutt'altro che scontati. Ci troviamo, infatti, subito nei panni di Nolan (possibile citazione dell'autore di Memento), un afroamericano che dopo un incidente stradale nel quale ha perduto la propria compagna si trova nel difficile recupero della sua esistenza, supportato in ciò dalla piccola figlia Ava. La strada è subito lastricata di difficoltà, funestata dagli eventi più comuni di un menage andato in frantumi e difficile da ricomporre. Il prisma degli affetti si scompone e ricompone senza mai riprendere la forma originaria. Ma c'è una memoria somatica fatta di gesti e una meccanica dei gesti del corpo che è difficile tradire, anche quando ci si trova nel buio più profondo questo sembra struggentemente suggerire Osei-Kuffour, nel rapporto simbiotico che lega Ava al proprio padre e viceversa. 

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Il cammino diventa più complicato quando Nolan si affida agli esperimento di pseudoscienze della dott.ssa Lillian, che in maniera spregiudicata aveva nel momento di premorienza di Nolan, inserito un fascio di impulsi elettrici del cervello del proprio figlio morto tempo prima dopo essere precipitato dalle scale a seguito di una lite familiare. Aldilà di rilevanti sequenze oniriche di grande impatto, è qui raccolta in nuce la sfida teorica che il film pone allo spettatore, ovvero che la mente o il fascio dei suoi impulsi elettrici sia in qualche modo o meno installabile come un software all'interno di un hardware, prescindendo dalle ragioni del corpo. In realtà la scelta del regista non è così netta come sembra, ne è testimonianza la lotta che si scatena all'interno della realtà mentale del protagonista, tra i ricordi di Nolan e quelli del figlio della neuropsichiatra. Tuttavia, l'opzione che tutto accada nella realtà mentale è sintomatica già di un taglio. Non siamo, infatti, nella mente spinoziana che "non conosce se stessa, se non in quanto percepisce le idee delle affezioni del corpo", che è prona e ricettiva su di esso, ma come qualcosa che prescinde da esso e dalla sua storia individuale, quanto forse distopicamente anelano le società dell'high tech della Silicon Valley, ovvero che i corpi siano mero involucro "formale" e non sostanziale di una mente immortale, che persevera nella sua esistenza e che possa prescindere dalla storia e dal linguaggio individuale. Una mente disincarnata, astorica e asettica, puro calcolo, quella dei colossi del cybertech. La realtà è che non c'è mente se non incarnata, se non nelle possibilità che una lingua può dire o non dire, finanche in quelle creative da esplorare, e soprattutto non c'è mente senza le idee delle affezioni del suo corpo, delle realtà materiali con cui il suo corpo viene a contatto. In un certo senso la memoria è proprio la storia delle ricostruzioni più o meno veritiere di ciò che accade fuori di noi, le immagini mentali possono essere delle straordinarie zone di comfort, come autentici abbagli, ma in fondo configurazioni e mappe di orientamento che non possono prescindere dal corpo e dalle modificazioni che esso subisce con le realtà con cui viene a contatto. Questo sembra suggerire splendidamente il regista quando qualcosa di così corporeo come il suono della voce di Ava, richiama il protagonista che sembra trovare la strada perduta e poi i gesti e poi i sentimenti mano a mano a ritroso verso la coscienza piena di se stesso, della propria mente intesa come insieme dei propri simultanei rapporti con la realtà e con l'organismo che li contiene. E allora, come la luce manifesta se stessa e le tenebre, così la verità è norma di sé e del falso, perciò persino l'immagine finale della dottoressa che preserva e accudisce il figlio nella forma di una stringa di un algoritmo digitale, è autoconsolatoria, e forse dice molto più delle paure e delle speranze dell'uomo tecnologico, piuttosto che di un presunto quanto utopico luogo di preservazione dell'anima. Quella cosa che Umberto Eco vedeva come una atea forma di conservazione della propria impronta nel mondo e che in fondo costituisce nient'altro che una resurrezione di antichi miti sotto altre vestigia, soltanto una bella menzogna, frutto maturo però dei nostri tempi, del nostro linguaggio e della nostra tecnica.

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