Goltzius and the Pelican Company - Peter Greenaway

Uno dei primi incisori di stampe erotiche del tardo Cinquecento, Henrick Goltzius, è alla ricerca di un finanziatore per riuscire a finalizzare il suo progetto: un libro d'illustrazioni di alcune tra le più controverse storie del Vecchio Testamento. Il margravio di Alsazia è disposto a donare la cifra richiesta, ma solo se Goltzius e la sua compagnia, The Pelican Company, lo convinceranno mettendo in scena dal vivo gli episodi biblici legati ai vizi capitali. Solo che Goltzius ha un progetto audace in testa che è il medesimo di Greenaway: trattare le immagini come le parole, affinché si produca un connubio tra immagini e parole che superi la loro essenza isolata. Il lavoro diventa propriamente quello dell'artista che deve riuscire a vivificare la rigidità della parola morta, ingessata dalla religione e dal linguaggio  "sacro", nel senso di "sacer" separato. La messa in scena, il teatro, costituisce e spalanca la possibilità estetica di riportare nel piano immanente la parola delle scritture per conferirle un nuovo e liberatorio senso. 
Goltzius riproduce la lotta di corpi in cui è inscritta, tatuata, la parola del potere della sceneggiatura, della storia a tutti i costi, insieme al loro sforzo di liberazione. L'ortodossia religiosa è il massimo dell'allucinazione del cinema, laddove la parola è asfittica, non dice nulla oltre il suo dire. Svelare una volta per tutta l'artificialità del cinema, questo è il compito dell'artista. Per tale ragione, Greenaway si autorappresenta nelle vesti di uno stampatore nell'atto di scardinare tutti gli elementi di potere: primo fra tutti quello della parola scritta. Il testo illustrato, la didascalia conservano la violenza del principio sadico, perché mettono in scena ciò che lo scritto ordina imperativamente: l'immagine che rappresenta è dimostrazione cogente dello scritto. Più di una similitudine induce l'opera di Greenaway con il Salò/sade pasoliniano, ma mentre lì l'immagine è connivente allo scritto, sua diretta produzione, per Greenaway si tratta proprio dell'operazione contraria, quella di una messa in scena che produca un cortocircuito nel linguaggio del potere. 
Contro tale potenza presupponente, per cui ogni cosa nominata viene trascinata nel linguaggio, si tratta, dunque, di produrre un'immagine nuova che strappi le pagine e le restituisca alla vita, per un'espansione della potenza estetica oltre il testo scritto, oltre la scrittura di scena. 
Fabbricare un nuovo spazio, non più solo oggetto, ma potenza inglobante, in cui tutto l'universo che guarda è la dimensione da conquistare, fino a rompere in modo fittizio quello schermo che divide la scena dallo spettatore-voyeur. E fabbricare un nuovo senso, la parola che non cessa di produrre implicazioni e imbrogli, epigoni e traditori, non solo negli attori che la inscenano, ma finanche nelle segrete stanze del potere del margravio, che è trascinato nel pieno di un fastoso labirinto da cui non si può uscire, e nel quale viene presto trascinato anche Goltzius/Greenaway. 
E' infine l'ultimo cortocircuito quello che annulla ogni potere, anche quello dell'autore sulla propria opera che ora può scorrere placida, serena. Si tratta di arrivare all'utopia di un'opera impersonale su cui spiri il freddo alito del principio di immanenza, in cui l'espressione artistica sortisca modificazioni all'interno della corte committente e sull'autore stesso, e in cui ciò che si esprime modifichi la stessa causa di espressione.


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