Un tanto funesto desiderio…


Quando i primi ragazzi arrivarono sopra la collina il cielo era terso l’aria leggermente spettrale, non c’era sole, ma la calura estiva era tangibile dai segni lasciati su una terra arsa che si apriva spalancando strati angusti privi di luce.
Le preoccupazioni dei primi arrivati erano quelle di scegliersi i migliori posti per piazzare le proprie tende, e quindi gli sguardi inebetiti si alzavano quasi naturalmente verso il cielo nella ricerca di qualche indizio che venisse dall’alto nell’orientamento dei punti cardinali. Qualcuno si cimentava in calcoli ardimentosi su quanto sarebbe stata consistente l’ombra delle poche querce presenti alle nove di mattina, poi alle dieci, alle undici, essa avrebbe determinato la lunghezza del riposo mattutino e con ciò anche un ritorno più sicuro. Altri, che si erano muniti di vere e proprie Yurta, cercavano slarghi abbastanza ampi senza dislivelli e valutavano la bontà del terreno come moderni agrimensori. Giovani donne si erano sedute al bordo di un precipizio e si alternavano a gettare distratte occhiate ai toraci dorati dei loro uomini che si dannavano a piantare pali delle loro temporanee dimore, e sguardi stanchi oltre l’orizzonte dominato da una vasta pianura bianca tagliata quasi a metà da una grande strada scura.

Raramente si vedeva balenare un piccolo lampo da quella linea così ben definita, erano altri compagni che giungevano, quasi inaspettati dalla linea dell’orizzonte, ben presto avrebbero manifestato la loro presenza con i potenti bassi delle loro autoradio, che si infrangevano sulla collina ad ondate di suono dopo aver occupato il vuoto pneumatico della vallata.
Un’altra fronda appena sbarcata cercò subito di dissimulare la propria pubertà suddividendosi due bottiglie di gin di ottima marca. Tutti però, si erano assunti dei compiti precisi per la buona riuscita della festa, alcuni raccoglievano rami secchi per accendere i fuochi stagionali che avrebbero svettato fieri sulla collina, altri si occupavano del parcheggio delle automobili e guardavano con attenzione verso la strada unica via d’accesso a quella vecchia discarica, ora spiazzo che si riempiva dei loro mezzi.
Mano a mano che la festa si alimentava dei primi balli, delle prime sbronze, delle prime risse, ma anche dei primi sguardi che, complici, non avevano prima d’ora contemplato con tanta sfacciataggine, continuavano ad affluire imberbi avventori da tutte le regioni, quasi come chiamati dallo splendore che di notte riluceva da quell’altura.
Ecco che giovani nudi inscenavano lotte per un bene che in città non avrebbero mai conteso e si colpivano così duramente che solo l’eccesso di adrenalina in quel momento evitava che i loro visi venissero rigati da lacrime salate. Due giovani erano stesi a terra e facevano l’amore con una tale foga che sembravano non curarsi delle loro nudità e dei loro orgasmi di fronte ad una platea di astanti spettatori che li applaudiva felici e appagati.
La collina interamente colonizzata da un mare di voci afone chiamava ulteriori contributi all’evento solenne, e oramai le tende si accalcavano le une sulle altre e pochi erano rimasti gli spazi oltre i cinque metri quadrati in cui radunarsi, tutto si svolgeva fra le tende, tante vie e interspazi quanto il multiplo di quelle mobili abitazioni. Ma ciò che destava maggiore meraviglia era costituito dal numero delle vetture in fila per raggiungere quell’enorme festa. Per chi l’avesse mai potuto osservare dall’alto con l’effetto notturno, quei fari nel buio notturno componevano un’enorme flusso seminale che si attorcigliava e scorreva fino ad un uovo preparato ad essere fecondato. Ora i giovani in fila cominciavano a piantare piccole tende sulla strada, alcuni delusi, conteggiandosi fuori dall’evento notturno, aspettavano sperando di fruirne almeno a tarda notte.
Lo spettacolo, intanto, si protraeva e gli eccessi ripetevano la loro differenza, sempre più intensi, sempre più estremi. Gli amori innocenti erano diventati violenze depravate, le timidezze paranoie, nessuno nascondeva più i propri bassi istinti e la paura circolava ormai nelle fondamenta di quell’organizzazione primordiale. Qua e là giravano squadre di morte che con il pretesto di fare spazio a nuove tende rompevano, distruggevano e massacravano, avendo cura di scaraventare corpi e attrezzature giù dalla collina. Quelle donne che, annoiate, avevano gettato i loro sguardi verso l’orizzonte ripetevano come un antico rituale lo stesso atteggiamento, ma le lacrime marcavano la differenza. La più giovane di loro, in disparte, rivolgeva gli occhi al cielo, come pregando verso antiche divinità del cui potere si dubita. Un'unica chioma bionda agitata dal vento sembrava interrogare le nuvole sulla sua propria salvezza.
Le urla e i suoni di coloro che attendevano a valle, pervenivano ad una comunità impaurita come ululati minacciosi, anche i più forti ora pregavano all’orizzonte prostrati, ma diffidenti dei propri vicini. E dalla terra lontana nacque un turbo che percosse e scombinò l'ordine arbitrario di quella lunga fila di autovetture. Sulle prime non si capiva cosa stesse succedendo, a catena, infatti, le luci delle auto più lontane si spegnevano improvvisamente, via via sempre più vicino. Poi quel chiasso indistinto, metallico e vocale che si avvicinava insieme al buio, e un odore pungente, aspro di benzina, che accompagnava il distendersi del vuoto atterrì le coscienze di quei miseri spettatori. Poi i pochi fuochi rimasti palesarono ai loro occhi pigri il terribile presentimento che avevano provato. Un’enorme macchina nera, lunga, stranamente composita dotata di arpioni e potenti presse incastonate fra un’architettura di bulloni e lamiere, stava percorrendo la buia strada quasi confondendosi con essa, schiacciando sotto il suo peso metallico e ad una forte velocità le automobili dei ragazzi che aspettavano di salire alla collina e con esse anche i loro giovani corpi, travolti inaspettatamente. Sangue, metallo, benzina e interiora si mescolavano su un asfalto di cui non si poteva più riconoscere il colore originale. L'orrenda macchina continuava ad ingurgitare corpi insieme a pezzi di telai, vetri e ferri, lasciandosi alle spalle rottami marcescenti. Tutto scompariva sotto la sua fremente freddezza. Arrivata sul crinale la sua furia devastatrice continuò ad esercitarsi su quella sfrenata tendopoli. Quelle misere abitazioni venivano divelte e macinate insieme alla fanghiglia escrementizia.
Finalmente il mostro meccanico diede accenno a rallentare, quasi a scuotersi il rosso rubino di dosso con un rumore sordo che sembrava un rantolo, poi proseguì lento fino ad attraversare due antiche querce. Infine si fermò. Ancora un rumore, secco stavolta, e, lentamente fra i cigolii, si aprì una porta laterale. Improvvisamente dal fumo uscirono preoccupati i genitori della piccola che tanto li aveva invocati. La piccola si avvicinò e li abbracciò. Il padre le spostò i capelli dal viso ancora rigato dalle lacrime e le sorrise: "Vieni piccola, occorre proseguire verso ciò che è infranto e dimenticato". La ragazza sapeva che non sarebbe potuta tornare indietro. Così tutti assieme poterono risalire nella pancia del mastodonte e ripartire mentre il sole tornava a splendere arroventando carcasse informi, asciugando nere pozze di sangue ed olio sull'unica strada possibile verso l'orizzonte.

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