Il lungo addio

Una voce mi chiamò, ero assorto al finestrino, un’atmosfera arancione ridipingeva tutto il paesaggio, ma non era quella di un tramonto, assomigliava piuttosto a quella di un deserto metropolitano notturno, illuminato da fitti e alti lampioni. La voce mi richiamava mi rapì per un attimo dalla contemplazione di quella consistenza metafisica. Una donna era al volante, riconoscevo qualcosa dei suoi tratti, un’impalpabile nebbia ne velava il volto, eppure sperimentavo qualcosa di follemente familiare. Il tono monocorde delle sue parole mi giunse prima del significato. Era un nitido rimprovero per qualche mancanza, e io ancora alla sprovvista, gettato in quella situazione, francamente mi rendevo conto di non avere alibi. Ero perfettamente cosciente, tutte le informazioni che colpivano il mio nervo ottico e i suoni che arrivavano al timpano del mio orecchio erano ricostruzioni perverse e aberranti del mio cervello, non vedevo muoversi le sue labbra, ma una lenta regressione della mia omeostasi mi faceva dire che la donna a cui lunghi capelli neri coprivano il volto, ce l’avesse proprio con me.

Proseguì la sua cantilena incomprensibile, conducendo la macchina sopra alcuni dossi artificiali. Compresi subito che non eravamo soli. Un altro sconosciuto occupava abusivamente l’abitacolo, ne percepii il peso e l’occupazione dello spazio, persino il consumo dell’aria coi finestrini chiusi è diverso in macchina quando si è in tre. Lo spazio non è indipendente dai soggetti che lo occupano, niente può essere oggettivo e neutrale nell’abitacolo di una macchina in piena notte.

Dovevo ancora difendermi da imputazioni di cui non ero sicuro di aver compreso bene l’entità, e forse era molto tempo che mi disponevo a quest’atto, ma non potevo credere che tutto sarebbe arrivato su un auto, di notte, senza vedere il volto del mio delatore. Un universo di marche percettive offuscava la realtà, tutte disposte come trappole e di cui percepivo vagamente i pericoli, quasi avessi il timore di conoscere nitidamente ciò che solo velatamente si palesava attraverso i miei sensi.

La donna continuava a guidare lungo la strada, volevo supplicarla di esplicitare la mia colpa per iniziare finalmente il processo e così la mia difesa, ma qualcosa come il residuo del mio orgoglio che mi portavo dietro in quella realtà di sogno, mi costrinse a non umiliarmi, e così masticai solo la mia saliva ancora un po’, attento a che nulla potesse rivelare indecisione o esitazione. Sentivo la sagoma aguzza e confusa di qualcuno alle mie spalle che mi faceva male in tutto il corpo, in maniera vaga e astratta percepii che la donna al mio fianco fosse legata a quell’entità in qualche modo. Forse quella natura si stava sforzando, ci provava e qualcosa glielo impediva, lì per lì ipotizzai che potesse essere una specie di fantasma impotente, qualcosa che se ne stava lì cercando in giro solo qualcuno che lo notasse. Qualcosa, a mia volta, mi impediva di voltarmi e smascherare l’identità dell’oscura presenza, forse la delusione che avrei provato nel constatare che in realtà eravamo soli io e la donna senza volto, ma con evidenza sapevo che c’era un testimone, un osservatore paziente, in quell’auto. La donna al volante continuava a chiedere conto di qualcosa senza fiatare, non sapevo ancora se si sarebbe potuto venire a patti con lei, né tanto meno cosa avrebbe comportato tutto ciò. Ripensandoci ora, quella situazione aveva tutti i contorni di un sogno, tuttavia proprio la condizione che si trattasse di una realtà onirica ne escludeva la possibilità. Tratto essenziale dei sogni, infatti, è che si creda fermamente alla realtà a cui si è di fronte, mentre in quel momento ero scettico su tutto. Avrei dovuto svegliarmi nel momento stesso in cui elaboravo questo pensiero. E invece tutto continuava a persistere e prosperare accanitamente nei toni del giallo e dell’arancione. La strada nera tagliava in due un vasto piano e si confondeva all’orizzonte con la notte profonda.

Nell’affannosa ricerca di dettagli del suo volto celato, non mi ero accorto che sui polsi della donna stagliavano in bella vista tagli paralleli alle braccia. Le mani sporche di sangue avevano lordato il volante in pelle nera e la tappezzeria dell’auto dalla parte del conducente, che sembrava ora ricoperta di petali neri. Come potevo non essermi accorto di questo, come poteva una donna sanguinante avermi condotto contro la mia volontà nell’abitacolo di quella macchina. Faticavo a mettere a fuoco come a ricordare, uno smalto di colpa e sangue ricopriva ogni rappresentazione del passato. Ora la vedevo soffrire e insieme accusare, l’immagine drammatica di quella sintesi ultraterrena scuoteva le mie membra, avrei voluto aiutarla ma qualcosa mi intralciava, ora fatalmente ci arrivavo: quell’entità dietro al sedile del passeggero mi teneva stretto a sé in una morsa serrata e mi impediva di muovermi e di girarmi. Ero io l’unico vero testimone di un’opera predeterminata, la lenta morte di quella donna al volante. Perché non cercavo di liberarmi dal corpo che mi cingeva? perché non mi dibattevo e o cercavo di sottrarmi alla sua presa? Cominciavo a scuotermi e dimenarmi, ma più mi agitavo e più quel demonio dalle lunghe braccia mi tratteneva e mi blandiva come per calmarmi. Non so ancora bene quanto tempo sia passato, guardavo la donna senza volto soffrire, sanguinare e, lungo un’anonima carreggiata in mezzo al deserto, dentro una macchina ferma sulla linea di mezzeria, finalmente morire. Ho pianto anche le lacrime che non possedevo sulle lunghe braccia di quel dio che mi bloccava, ho latrato richieste di perdono di chi possiede un petto squarciato e uno stomaco in fiamme, ho ululato tutto il dolore che un uomo solo può esprimere in una notte sola, finalmente senza la paura e senza la vergogna che qualcuno potesse sentire. Alla fine, vinto dalla fatica, ho smesso anche di dimenarmi e così ho potuto vedere la donna accanto a me rialzarsi, sorridermi e lentamente uscire dall’abitacolo della macchina dirigendosi in direzione opposta alla fine della notte. A quel punto il demone proferì le sue uniche parole: “È stata una decisione mia, lungamente meditata, ho avuto molto tempo per rifletterci, il suo dolore aveva bisogno di un testimone, ora è finalmente libera”. 

Mi volto anch'io libero dalla morsa, cercando di vederla un’ultima volta, ma dei protagonisti di questa storia non ne era più nulla, né della donna, né del dio del castigo che mi aveva legato, che forse, in qualche modo, voleva solo aiutare. Ora, anch'io potrò perdermi da qualche parte nel deserto che mi è di fronte.

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