L'australiano (the Shout) - Jerzy Skolimowski

Con tali esseri non si fanno calcoli, sopraggiungono come il destino, senza un motivo, una ragione, un riguardo, un pretesto, esistono come esiste il fulmine, troppo terribili, troppo repentini, troppo persuasivi, troppo « diversi » per essere soltanto odiati

(F. Nietzsche, la genealogia della morale)




Sono tornato a questo film, dopo averlo visto già molto tempo fa, forse con maggiore consapevolezza e apertura mentale rispetto alla prima visione giovanile. Mi è apparso subito evidente che bisogna subito comprendere e ricordarci lungo tutto l'arco della narrazione, che essa svolge un punto di vista, si dipana da un'interpretazione. Tutto il racconto, cioè, si snocciola dai ricordi di un uomo, inevitabilmente tutto assumerà una visione prospettica, lo stesso soggetto-medium della vicenda afferma esplicitamente che le sue parole potrebbero dirla diversamente "è sempre la stessa storia, ma io vario la sequenza degli eventi". Questo è un fatto fondamentale su cui non avevo riflettuto a fondo durante la prima visione, stiamo cioè per credere e prestar fede inevitabilmente ad una versione della storia quella raccontata da uno degli attori parte in causa della vicenda. Il fatto poi che quest'uomo sia anche un paziente di una struttura psichiatrica e decida di raccontare questa storia ad un dipendente della stessa struttura medica complica ancora di più una situazione già magmatica. In questa realtà non sappiamo da che parte sia la sanità mentale e mr. Crossley si presenta come a metà tra la pazzia estrema e la razionalità. Fin dall'inizio questi viene presentato come un uomo intelligentissimo. Skolimowski ci obbliga a credere al suo racconto magico ed evidentemente per farlo dobbiamo essere disposti a spossessarci del canone occidentale, causa/conseguenza, azione/reazione ed assumere un pensiero mitico e primitivo, un pensiero delle origini.
Il routinario menage dei coniugi Fielding verrà preso spazzato via, da un essere con il quale non si fanno calcoli, che arriva minaccioso come un destino, una profezia che si autoavvera, egli stesso mette in guardia la famiglia di ciò che accadrà. L'incredulità della coppia è ciò che contribuirà a far avverare i presentimenti. Skolimowski fa esplodere la coppia borghese come già aveva fatto Pasolini con Teorema, prima di lui e come farà mirablmente Van Waremdam col suo Borgman che molto somiglia all'australiano. Tuttavia, fra i numerosi film a cui può essere assimilato e messo a confronto sul topos dello straniero che sovverte codici e canoni della famiglia borghese, mi pare che il film del regista polacco conservi un elemento di originalità, e cioè quello di aver allineato lo stile e la narrazione sulla prospettiva del turbine e della tempesta che investe la coppia. Non dunque una narrazione neutrale, ma l'assunzione di un punto di vista di alterità radicale che abbandona ogni logica occidentale e diventa persino difficile seguire in alcuni momenti per lo spettatore. Un mondo in cui domina la categoria del presentimento e lo stile litanico e cadenzato della profezia. Un universo filmico in cui l'avvento del selvaggio ridisegna non solo i limiti dell'uomo occidentale e le possibilità della coppia, ma influenza anche le stesse forme della narrazione in cui parti e funzioni sono circoscritte e messe in connessione per acquisire un nuovo senso. Potremmo interpretare la morte finale dell'indigeno tanto come l'effetto della caduta di un fulmine sul casotto in cui era appartato, quanto il risultato ultimo della maledizione sulla sua anima spezzata. Non è possibile sussumere un'alterità tanto radicale, e la doppiezza del registro narrativo di Skolimowski mi è apparso più di tutto il suo successo in questo film. I due universi si scontrano, si ibridano, ma la frattura è irricomponibile. Qualcosa che nel pensiero me lo apparenta al Kafka del racconto "un vecchio foglio" in cui scriveva brillantemente: "Parlare con i nomadi è impossibile. Essi non conoscono la nostra lingua, e si può a mala pena dire che ne abbiano una propria. Tra loro s'intendono alla maniera delle cornacchie. Di continuo si ode questo gracidare di cornacchie. Al nostro modo di vita, alle nostre istituzioni guardano con altrettanta ottusità quanta indifferenza; conseguentemente si mostrano restii anche ad ogni forma di linguaggio per gesti: puoi slogarti le mascelle e scardinarti le mani dai polsi, macché, non ti capiscono e non ti capiranno mai. Sovente fanno smorfie, roteando il bianco degli occhi e cacciando bava dalla bocca, ma non è che con questo vogliano dire qualcosa e nemmeno spaventare; lo fanno perché è la loro natura. Quello che gli serve, se lo prendono. Non si può dire che ricorrano alla violenza: basta che mettano la mano su una cosa, e ciascuno si fa da parte e gliel'abbandona."

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