Enconters at the end of the World - Werner Herzog
Viviamo su una placida isola di ignoranza nel mezzo del nero mare dell'infinito
(H.P.Lovecraft)
In assoluto il punto costante della cinematografia di Herzog è certamente quello della misura, o meglio della dismisura. Certo ogni passaggio estetico è lento, ponderato, ma la narrazione subisce tutto l'influsso di un metodo maieutico di indagine e interrogazione serrata per cui rischi di risvegliarti improvvisamente a sentire un biologo che parla apertamente di mostri che sembrano fuoriuscire da un racconto di Lovecraft, o della vicenda di un banchiere che fugge dal mondo e si ritrova a guidare un autobus in Antartide.
Il suo cinema regolare, cadenzato composto di movimenti lenti e campi lunghi sfidano l'epica narrativa delle imprese che il regista evoca con la sua voce fuori campo. I fallimenti delle prime esplorazioni tra i ghiacci del polo sud, le disfatte individuali e professionali. Un tedesco se ne va a far domande esistenziali agli scenziati che operano nella stazione di McMurdo nell'Isola di Ross in pieno Antartide. Si tratta di capire a quali condizioni la vita può essere messa alla prova, "vivere, in generale, significa essere in pericolo" scrisse Nietzsche nel suo libro su Schopenauer, Herzog sembra rendere filmicamente questo aforisma. In un certo senso, il regista sembra volerci suggerire che per comprendere che cosa possa fare un sistema aggregato di organi e funzioni, sia esso un corpo organico o un corpo sociale, bisogna che questo sistema complesso sia portato in condizioni di stress, sia, cioè, guidato verso il suo proprio limite. "La vita negli oceani deve essere un totale inferno. Un vasto, spietato inferno di pericolo costante e immediato. Un inferno tale che nel corso dell'evoluzione alcune specie, uomo compreso, sono strisciate fuori, sono fuggite su piccoli continenti di terraferma, dove le lezioni di Tenebra continuano."
Non si può certo giudicare l'uomo dall'american life style, come nessun potere può essere descritto dalla narrazione che esso dà di sé, dalla sua ideologia. Perciò bisogna mettersi ai limiti, ai margini. Bisogna andare nella periferia se si vuole avere uno sguardo prospettico che suggerisca nuovi usi e nuove potenzialità. Dalla periferia avremo una nuova idea dell'obelisco verso il quale, nella città, gli uomini si prostrano. Non necessariamente un'idea più veritiera, ma certamente nuova e meno omogenea, meno religiosamente ortodossa.
Nelle profondità marine dell'Isola di Ross in pieno Antartide, la lotta di piccoli organismi per la sopravvivenza è ancora tanto violenta quanto necessaria. La vita, al riparo dei nostri sguardi, si evolve senza posa. Ma se è vero che la vita si rispecchia nello spirito che la osserva, è vero altrettanto che non esiste alcuno specchio. Oggetto e immagine sono la stessa cosa. Il mondo che si estende nello spazio e nel tempo è solo un'idea nostra. Questo perché il mondo che Herzog racconta è altamente prospettico, è in un certo senso oggetto di "fabbricazione". Da questo deriva il grande amore di Herzog per le scienze e gli scienziati, presentati spesso come autentici narratori e storytellers. Connettori di conoscenze disgiunte, esploratori di mondi oscuri, autentici tessitori della materia plastica sulla quale operano. Alla stessa maniera del mestiere del regista che è costruttore di immagine, cui la realtà, nella sua complessità, scappa via da tutte le parti. Il racconto non è altro che la celebrazione di una disfatta e di uno scacco originale, quello tra pensiero ed immagini, tra teoria e realtà. Ciò che vediamo, infatti, è reale, ma anche oggetto di manipolazione. Ogni immagine è prospettica e quindi sempre manipolata, Herzog più di tutti rivela la follia del cinema "verità" occidentale.
La stessa dei pinguini. Essi fuggono verso le montagne piuttosto che dirigersi verso l'oceano, ma non è che la nostra ratio scientifica di calcolatori, di esploratori di regolarità, che "riflette" su tale comportamento suicida, ne isola i contorni e lo annovera ad atto innaturale, a folleggiare, ed errare dal vero. L'inquietudine, se ci pensiamo bene, è solo la nostra di spettatori impotenti, non quella dei pinguini.
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