La Giusta distanza - Carlo Mazzacurati

la giusta distanza


Un piccolo film a suo modo sorprendente quello di Mazzacurati, forse didascalico e troppo raccontato in alcune parti, ma che ha il merito di indagare a fondo e riflettere sulla natura del male. Il racconto del profondo Veneto, del male che si annida nell'oscurità della provincia infarcita di ignoranza e villaneria, quanto di arrivismo cialtronesco e morale di facciata che fanno da eco ai bellissimi quanto tetri paesaggi costituiti di lunghi orizzonti di campi di grano e maneggi. Terre strappate alle acque dalle bonifiche benedettine quasi come attraverso un crimine originario. Fortissimo è il richiamo di alienazione e di morte che da quelle pacifiche acque reflue, quasi stagnanti, sembra promanare. La follia di una vecchia insegnante chiama nel paesino di Concadalbero una giovane supplente, Mara (una splendida Valentina Lodovini), che forse s'immagina che la sua sarà solo una breve tappa nel cammino che la porterà in Brasile per un progetto di cooperazione. Nel cuore della natura delle cose c'è sempre il sogno della giovinezza e il raccolto della tragedia.

la giusta distanza
L'arrivo in paese di Mara è forse una delle migliori sequenze tecniche del film e ricorda a tratti la sfilata di Oja Kodar in F for Fake di Welles purgata della carica sessuale. Ma qui Mara è solo una vittima delle morbose attenzioni di un piccolo paese grigio e assonnato che si risveglia improvvisamente come inebriato dall'incedere della bella straniera giunta in città. Come nel film di Welles, il personaggio non si costruisce nella sua interiorità morale, ma nelle interazioni col suo mondo. E' un film di prospettive che si incrociano quello di Mazzacurati, il racconto degli eventi che sconvolsero la vita di un adolescente e il punto prospettico da cui necessariamente si dipana il film dona alle vicende passate l'aura solenne della tragedia, e l'asciuttezza della forma diegetica: il nostro narratore conosce sin dall'inizio l'esito degli eventi che narra. Distante temporalemente dagli eventi. Ma il film si costruisce su tante distanze spaziali e temporali, le sole che rendono possibili le narrazioni. C'è quella epistolare di due amiche che si scrivono, quella degli occhi buoni del tunisino Hassan che guardano non con avidità, ma colmi di desiderio la donna appena arrivata, quella dei corpi che incedono prima di toccarsi e amarsi carnalemente. La giusta distanza ci dice che nessuna distanza è mai giusta, e in un certo senso l'unico modo di conoscere e raccontare è la dismisura, cioè in un certo senso, essere dentro gli eventi e modificarli attivamente con la propria testimonianza. Il regista si ribella lungo tutto il film contro la teoria enucleata perfettamente dal direttore del piccolo giornale che assume il giovane: la posizione ideale che dovrebbe occupare ogni narratore, non troppa distanza, ma neanche troppo vicino "perché se un giornalista si perde nell'emozione è fritto". Ogni narrazione è prospettica e non c'è luogo ideale in cui potremmo raccontare neutralmente lo svolgersi dei fatti. E se ogni verità è prospettica occorre prendere posizione anche contro quella processuale che sembra inchiodare Hassan all'omicidio della giovane maestra, solo per il fatto scontato di essere tunisino. La dismisura comanda il giovane giornalista a schierarsi in difesa di chi non può parlare e il regista a raccontare verità scomode, che non avranno premi se non nell'animo degli ultimi e dei dimenticati, quei derelitti che guidano l'ape ma che un cuore che batte in mezzo al petto ancora ce l'hanno. 

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