Mediterranean Fever - Maha Haj

mediterranean fever

Una commedia nera, nerissima, visto il tema che affronta, ma narrata con una spensieratezza e un lirismo effimero, che ci consente di scandagliare le profondità dell'animo umano. Waleed è un padre di famiglia, che ha deciso di lasciare il suo posto di lavoro per diventare uno scrittore, ha due figli che frequentano regolarmente la scuola, una moglie infermiera, e due genitori benestanti. Un male oscuro, primordiale, circonfonde e pervade le sue giornate: si può continuare a vivere pensando di essere inutile e avendo in odio se stessi? Nemmeno la terapia di oltre due anni sembra aver giovato il suo umore e la sua disposizione alla vita. Solo che un giorno arriva Jalal, un personaggio sopra le righe, disturbatore, sfrontato e con un aurea opaca, uno che è in grado di accomodare lavandini, tirare su il muro portante di una casa, ma anche riscuotere il pizzo per la malavita locale e accoltellare un debitore. Jalal si presenta come un fastidio, il rumore che non consente all'artista di attaccare la sua pagina bianca, un fastidio persistente che presto diviene necessario come l'ossigeno per Waleed. I due, con modalità farsesche, metteranno in moto un pericoloso meccanismo destinato alla tragedia. Qualcosa che, per me, richiama da vicino il meraviglioso Sundown di Michel Franco (il che ovviamente non mi esime dal chiedermi perché sia così attratto dai film sul suicidio e la depressione), con una enorme differenza, mentre nel film di Franco il soggetto affronta il mondo esterno e gli altri con una tesi già dimostrata, una verità posseduta, uno "sto godendo gli ultimi momenti, ma tanto già so come andrà finire, l'ho già deciso", il personaggio della Haj al contrario è un affabulatore, un depresso reticente, che vuole farla finita, ma non ha il coraggio per farlo e lascia che la sua decisione sia rimessa in gioco ogni volta dagli accidenti esterni e le volontà altrui. 

Intuiamo le doti narrative del protagonista, la sua capacità falsificatrice, già dal sogno premonitore iniziale: qui pare aver ucciso la vicina di casa e in dialogo col figlio di lei si immagina come questi, con ogni mezzo, cerchi di assolverlo dalle sue colpe, deresponsabilizzando le sue azioni. La Haj ci sta suggerendo già uno stigma che faticheremo a mettere da parte, quello dell'artista/intellettuale irresponsabile. Lo scrittore è nella sua essenza un affabulatore, che mistifica la realtà per nascondere le sue colpe e le sue responsabilità, è un uomo meschino che non vuole credere fino in fondo al peso delle sue azioni, o peggio talmente astratto dalla realtà da non riflettere sul fatto che le sue azioni producano sempre conseguenze inemendabili. La febbre mediterranea del figlio di Waleed che lo fa assentare da scuola tutti i martedì è in fondo l'allegoria della malattia profonda del padre, la capacità di trasfigurare la realtà in narrazione appunto e sfuggire al peso delle responsabilità e delle difficoltà. Forse in ciò dovremmo anche cogliere anche un'accusa politica, non troppo velata, della regista agli intellettuali della causa palestinese. O forse che ogni capacità narrativa o affabulatoria origina e scaturisce necessariamente da una certa cattiva coscienza. Perché in fondo è chi narra che ogni volta costruisce e inventa le mani del proprio persecutore. Jalal diventa così il personaggio perfetto come sicario nelle mani di Waleed che non sa farsi fuori da solo. La canaglia tuttofare vicino di casa è gravato dai debiti e deve accettare il ruolo, salvo però un ripensamento finale. Empatia e riconoscimento della propria stessa condizione di sofferenza? O non sarà forse che l'alter ego, doppelganger di Waleed, suicidandosi, costruisca una tragica rappresentazione, una autentica messa in scena per Waleed, impartendogli una sonora lezione di vita, lui che rimasto solo di nuovo, di fronte ad una pagina bianca potrà solo provare a cimentarsi finalmente con la scrittura, potenza del falso, per superare colpe e rimorsi, o cercare nuove mani che stringano il proprio collo.

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