Satana a Goraj - Isaac Bashevis Singer

Un agente patogeno che attacca un sistema sano di dominio e funzioni, deve, in prima battuta, travestire lo scopo della sua azione integrandolo a quello della struttura, ma pervertendone i fini. Il virus che Isaac Bashevis Singer descrive nella sua prima opera giovanile, Satana a Goraj (Adelphi, 2018) si annida tra i rigidi cerimoniali dell'ortodossia ebraica, si nasconde nella stretta osservanza delle regole, e, dispiegando i suoi effetti nel moribondo corpo del collettivo per svuotarne le forme esteriori, arriva fino a distruggere l'identità stessa della comunità: un emissario del messia è arrivato a Goraj.
Singer mette in mostra l'insinuarsi di ansie e tensioni millenaristiche in una piccola comunità aschenazita ai confini orientali della Polonia alla metà del XVII secolo, nascondendo, tra le pieghe della sua narrazione popolare tra il farsesco e l'apocalittico in tipico stile yiddish, una lucida riflessione sulla legge e sulla storia.

La vicenda prende avvio dai massacri compiuti dai cosacchi di Chmel'nyc'kij tra il 1648 e il 1652 nella Polonia meridionale nei confronti delle comunità ebraiche polacche. E il sangue versato da una comunità non è mai vano, ma anzi, quasi sempre agisce da collante e diventa fonte di riscatto. Esso si sedimenta in epos, in racconto, e la parola, si sa, è sempre sobillatrice e rivoluzionaria delle condizioni esistenti di un popolo. Quanto più si diffonde la narrazione tanto più aumenta l'ansia di rivendicazione. E una preghiera di giustizia, portata con tanta veemenza fin nell'alto dei cieli, finisce per suggestionare gli stessi oranti.
Ai brutali massacri si sovrappongono straordinarie dicerie: sembra che in tutta Europa sia venuto il tempo del salvatore che redime i peccati. E già perché la capillare diffusione di un'interpretazione dello Zohar, uno dei testi più criptici e inaccessibili della mistica ebraica, riferisce proprio della venuta finale del Messia. Di lì a poco, nel ruolo è allora acclamato l'ebreo ottomano Shabbatay Tzevi e di lui mirabolanti, quanto fantasiose leggende si sovrappongono, quasi tutte infondono nei cuori il sogno della terra promessa e della conquista della "Gerusalemme celeste". Ma la mistica individuale di visionari e profeti corrode lentamente il sistema sociale della comunità di Goraj. L'instaurazione di un nuovo regime spirituale agisce, appunto, come un virus sulle convenzioni comuni: tutte le leggi sono virtualmente abrogate, e la stretta osservanza dei comuni comandamenti sembra perdere ogni importanza. Solo l'immersione nel fiume del turpiloquio, delle nefandezze e della trasgressione avrebbe consentito ai "credenti" l'ascesa al cielo delle loro anime. La discesa di Goraj nell'abbandono delle pratiche esteriori si rispecchia, allora, nel paradosso del messia Tzevi che giunge a rinnegare la propria religione e a convertirsi all'Islam in una estrema catarsi ed emendazione dal male. Voltafaccia che, forse, prelude soltanto alla diaspora e al naufragio dell'ebreo novecentesco, stretto tra modernità, sionismo e chassidismo e che Singer descriverà in maniera mirabile ne la famiglia moskat. Se tutto ciò che salva è interiore, nascosto e oggetto di una rivelazione esoterica, allora ogni rituale e pratica esteriore perde il suo significato originario, (persino una religione vale l'altra agli occhi dei credenti sabbatiani), tutte le leggi e morali diventano arbitrarie. Insomma, se la realtà è solo apparenza, allora tutto è lecito.
In un'aspra contesa tra rabbini, profetesse, cabbalisti e talmudisti, Singer, come solo Kafka prima di lui, affonda la sua penna fino alla dicotomia primordiale tra legge e provvidenza. Se la legge è arbitraria e provvisoria, perché governa nella frangia di storia compresa tra l'Eden e l'Apocalisse, la fine messianica della storia non appare di certo meno preoccupante quando finisce per definire una soglia in cui ogni differenza tra essere e nulla, lecito e illecito, divino e demoniaco sembra venire meno.

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