Sull'attraversamento della palude
La palude oscillava tra il parlamento francese dell'epoca rivoluzionaria e
la decadenza e l'abiezione che provava con quella compagnia. Non si era tenuti a
parlare. Né del resto nessuno ci teneva particolarmente. Si poteva gesticolare, condurre
bizzarri giochi con i gatti. Regredire finalmente allo stato bestiale. Ma la palude rimaneva. Un senso di malcelata interiorità offuscava come
nebbia l'orizzonte, ottundeva le sensazioni, tutto era troppo lotofagicamente
sospeso. La palude era tanto immobilità che degradazione. Le figure si
allontanavano come tante pozze torbide con fondali oscuri, eppure tutti erano
lì separati sì e no da qualche maledetta mattonella. Che poi, nessuno ha mai
chiesto agli stagni cosa vuol dire sentirsi palude. La vita organica vera,
l'humus che frigge, la piaga che marcisce, la tocchi solo ai bordi. Voglio dire,
la marcescenza avrà mai coscienza del suo marcire? I corpi che si accrescono e
quelli che si degradano e si scompongono e diventano merda non acquistano forse
una nuova realtà. E ogni realtà pensa se stessa e tende a conservarsi con una forza
rinnovata (che cazzo dice Spinoza?). Un grappolo informe di zanzare taglia a
metà la nebbia della palude. Sono un corpo solo. No sono molte zanzare che si
fanno uno. La molteplicità attraversa il piano marcescente e melmoso. E'
proprio lì, la Senna di Henri Miller (ancora sta cazzo di Parigi... non puoi
scrivere due parole che ti torna tra i piedi come un cane affamato che viene a scoparti una gamba). E' nella
palude che la vita organica, purulenta, velenosa, scompone, compone e organizza
tramando nuovi destini, tracciando nuove vie. Occorre stare in agguato nella
palude, non si è più solo e innocentemente se stessi una volta che la si è
attraversata. Nuovi occhi vi guardano mentre vi guardate.
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