Arrival - Denis Villeneuve

"Noi siamo il linguaggio" (William S. Burroughs)


L'uomo pensa sempre come naturali le sue abitudini, i suoi pensieri e i suoi modi di vita, almeno fino a quando non c'è un barbaro, un alieno, un altro venuto dal fuori, dalla piega più esterna, che ne interroga la loro artificialità e convenzionalità. E che cosa se non il linguaggio è l'elemento cardine ad architettare e gerarchizzare i dati della realtà per passarli nella convenzione, nella seconda realtà, quella dell'artificio e dell'esercizio di stile?
Quella parte illusoria che crediamo di abitare è il mondo falso delle parole. Il linguaggio è contraffazione. Contraffazione al quadrato nelle lingue indoeuropee, laddove il verbo essere oltre ad esprimere l'esistenza di un ente esercita anche una funzione di copula. Una mela è. Tuttavia essa esiste già prima di questo asserto. Se poi aggiungiamo che la mela è un frutto, non facciamo altro che duplicare il falso universo di segni appena creato. "Gli specchi e la copula sono abominevoli perché moltiplicano il numero degli uomini" scrisse Borges.

Burroughs paragonò il linguaggio ad un virus alieno spedito agli uomini per corromperli ed estinguerli. Villeneuve, porta sullo schermo degli invasori che sono, invece, gli affrancatori dell'umanità dal peso del linguaggio e della parola.
Per scoprire la propria umanità, l'uomo dovrà fare a meno della sua realtà linguistica, regredire all'indietro fino ad arrivare al soggetto, cioè a ciò che giace sotto (l'hypokeimenon aristotelico), al nome proprio. Louise e Ian si presentano così a Tom e Jerry, gli alieni. Ma ogni traduzione parte dall'errato presupposto di trascinare l'altro nelle proprie reti linguistiche. Ogni traduzione è indissociabile da un tradimento. Così "un dono" diventa "un'arma". L'universo intero è ad un passo dalla guerra mondiale.
E ciò perché l'altra lingua non va tradotta, va sperimentata. L'enigma dell'altra lingua allora è scorgere la propria vita con gli occhi di uno straniero. Se c'è qualcosa che resiste al linguaggio è la pulsione, il desiderio, l'inconscio. I sacrosanti diritti del corpo che il linguaggio esprime e allo stesso tempo sacrifica ogni volta perché ogni volta vengono da questo trasformati in norma, regola sintattica, parola d'ordine. Il non detto del corpo aldilà di ogni rappresentazione associativa.
"Cosa vi ha tanto spaventato da farvi entrare nel tempo? Nel corpo? Nella merda? ve lo dirò io. La Parola" scriveva ancora Burroughs nelle lettere dello Yage. 
Il linguaggio è la garanzia che tutto scorra da un passato attraverso il presente verso il futuro. Tolto il linguaggio l'uomo sarà forse restituito ad un sapere più vero di se stesso, aldilà del tempo e dello spazio, questa è l'utopia che ci trasmette Villeneuve. Niente come il cinema ci avvicina a questa liberatoria possibilità.

Commenti

  1. Ciao Rocco. Ho scoperto il tuo blog di recente, grazie al post su facebook del nostro comune amico Giuseppe, è da allora mi sono divertito a girovagare tra le trame delle tue biforcazioni. Per quanto possano valere, ti faccio i miei complimenti, per questo piccolo blog, che mi piace molto. Contenuti suggestivi, intriganti, originali. Come queste riflessioni su Arrival (film meraviglioso), sul linguaggio, sull'artificialità della natura (umana). Perché è vero, dici bene, la parola è la dimensione in cui fiorisce sapiens e in cui si definisce il suo rapporto con il reale. Del resto, non è un caso che "in principio era il verbo". Dio è (e si manifesta nel) linguaggio. Che è contraffazione, assolutamente. La tecnologia più antica. L'artificio per antonomasia. Ovvero, l'unica realtà possibile, perché il "mondo falso delle parole" è il solo vero mondo che possiamo abitare. Non esiste nulla che non possa essere nominato, compreso l'incomprensibile, perché esiste tutto, incluso l'inesistente. E tutto ciò per il semplice (complesso) fatto che siamo animali che parlano.
    Sulla traduzione, che è sicuramente tradimento, ma è anche, e a parer mio soprattutto, nascita, nuova possibilità.
    Molto interessante la tua riflessione sul corpo, e la sua "resistenza" al linguaggio, che direi si pongono in una relazione di reciproca comprensione e soddisfazione. Per questo l'umano si definisce nella Parola: l'uomo senza linguaggio, semplicemente, non esiste. Secondo me l'utopia che ci trasmette Villeneuve è "scorgere la propria vita con gli occhi dello straniero", che è probabilmente lo sguardo da far indossare ai propri occhi per riuscire a cogliere il riflesso di sé che vive negli altri.
    Perdonami se ho divagato e scritto troppo. Ancora complimenti. A presto :)

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    2. Credo fosse Heidegger che in essere e tempo abbia detto appunto che il linguaggio sia la casa dell'essere. E attenzione non l'essere stesso, ma la sua dimora, cioè ciò in cui l'essere dimora senza confondervisi. È una sfumatura molto sottile, ma sostanziale. Mentre gli animali sono immediatamente, a noi è data la mediazione del linguaggio per cui ciò che è, si dice anche. E condivido pienamente la tua riflessione l'utopia è scorgere la propria vita con gli occhi dell'altro, ma anche utilizzare un sapere comune che ci consente di esprimerla ed estrinsecarla come nuova materia, un qualcosa in più della vita stessa, aldilà della vita stessa. Per questo dare la vita che è proprio solo del linguaggio doppiamente ti ringrazio della tua parola nuova, che appare nuova linfa dove ciò che una volta è stato scritto rischia ogni volta la morte.

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