Paterson

Poco ci sarebbe da scrivere della routinaria vita di Paterson, autista di autobus del comune di Paterson nel New Jersey se egli non fosse anche un artista. Già, perché quello che Jarmusch modella, non senza ironia, è un personaggio dai tratti kafkiani, non un inetto, ma di certo un uomo che poggia la propria esistenza sulla monotona alternanza casa/lavoro, chiamando poi quello stesso uomo con un nome che si fonde con quello della sua stessa città. 
Allo stesso tempo, quello che Jarmusch conduce è una delicata e profonda riflessione sull'atto di creazione e la creatività. La scrittura che attraversa lo schermo approfondisce un solco tra le cose e le parole. Ciò che è, si dice anche linguisticamente. Ciò che è, infatti, esiste ed è anche linguaggio. Ma lo stesso linguaggio ha una doppia polarità, esso è tanto patrimonio comune, della nostra città, degli scrittori che la vita ci fa maestri (ogni uomo che attraversa la propria città, lo fa sulle orme di qualcuno che l'ha fatto prima di lui), quanto della nostra individualità, delle forze che ci attraversano.
E chissà che forse l'universo casalingo di Paterson non sia solo una gigantesca metafora di un teatro sul quale si alternano due polarità comuni ad ogni scrittore: qualcosa come l'ispirazione o la creatività rappresentata da una donna che sfuma e disegna di nero e di bianco la vita del protagonista e l'ombra dell'insoddisfazione, del disconoscimento della propria opera, nel correlativo di un cane che dissemina di trappole e insidie nelle fondamenta rassicuranti del suo menage domestico.
L'artista può liberarsi dai lacci della vita giornaliera, sorpassare le proprie mediocrità, trasfigurare le cose nella propria lingua, ma l'equilibrio è stretto sembra dirci Jarmusch, e, forse, passa attraverso quella pratica zen che Spinoza chiamava acquiescientia in se ipso, dalla gioia che nasce nel contemplare la propria potenza di agire, qualcosa di enormemente più grande di un semplice taccuino. 

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