Silence

Il paradosso cristiano della gloria di Dio consiste grosso modo nel fatto che essa appartiene interamente a lui in senso compiuto, infinito e oltre ogni tempo, niente può accrescerla, giacché essa non può essere misurata. Tuttavia, ogni gloria presuppone una glorificazione e cioè un ente che tributi o predichi questa qualità per qualcos'altro da sé. Le creature, quindi, devono gloria a Dio e cantano la sua grandezza. Esse, però, in quanto derivanti da Dio, non sono altro che un momento del processo costituente col quale Dio glorifica se stesso. Qui risiede il grande paradosso, Se Dio agisce attraverso le sue creature per la sua gloria perché le creature dovrebbero mai ringraziarlo? In che modo può aumentare una gloria già infinita?
Ho speso queste poche righe per mettere in questione (con l'auspicio di non averlo banalizzato) un concetto non estraneo alla narrazione architettata da Scorsese. Il tormento dei padri gesuiti che il regista ci pone davanti è insito nell'indissolubile enigma che li lega al loro motto: "Ad maiorem Dei Gloriam". Per la maggiore Gloria di Dio. Operare affinché le azioni compiute dagli uomini rendano tributo a Dio, ma la divinità per cui operano è silenziosa e gelosa, restia a ricambiare le attenzioni che riceve.
Intendendo il motto gesuita in una rigida ottica quantitativa, infatti, esso equivale solo ad una missione per estendere la platea delle creature che ringrazino Dio. Ciò significa necessariamente convertire alla verità cristiana della fede chi non ne è stato toccato. Questa deve essere la ragione profonda che muove padre Rodriguez e padre Garrape nella missione del Giappone del XVII secolo appena riunificato dall'imperatore Tokugawa. Ma non è facile seminare in una palude, le radici dell'albero più forte si infradiciano e muoiono. Il Giappone è la palude del cristianesimo afferma l'inquisitore all'ultimo prete.
Scorsese tratteggia, sulla traccia del romanzo di Endo, le fasi di uno scontro di civiltà, tutte le aporie dell'incomprensione, del misunderstanding, del fraintendimento, con una sapienza e un distacco quasi lirici.
Due universi in lotta in grado di smuovere emotivamente chi sa di vivere fratture insanabili al giorno d'oggi. Non risparmia pathos, compassione e tinte forti, ad una vicenda che disseziona con i mezzi scientifici di un antropologo.
Il Giappone feudale conosce solo la forma del rito, l'occidente cristiano assolutizza la fede interiore contro ogni realtà esteriore. Come può darsi un incontro che non sia anche disconoscimento dell'uno e dell'altro mondo? Il cristianesimo non è il pericolo, i suoi riti potrebbero tranquillamente convivere totalmente formalizzati, cioè svuotati di ogni contenuto storico accanto alla cerimonia del Té o all'arte dei mazzi di fiori. Tuttavia, è il paradiso il vero pericolo per la società giapponese come lo fu per quella romana secoli prima. La fede, cioè, che ci sia un cielo o un altrove che renda ragione del mondo e ne giustifichi il dolore, il male e l'ingiustizia. In questa faglia irriducibile appare la vera potenza del cristianesimo come potenza sobillatrice, come religione degli ultimi, dei diseredati e dei poveri, ma allo stesso tempo emerge anche il ricatto nei confronti della vita vissuta solo come testimonianza, martirio, in attesa di quella "vera" che non può che essere aldilà. 
Tutte le creature sono sacrificabili per la maggior gloria di Dio? La Gloria di Dio si fonda allora sul martirio, sulla degradazione sull'annientamento delle sue stesse creature? 
Padre Rodriguez forse rinuncia alla maggior gloria di una specie di tiranno, e glorifica solo la sua imperfetta umanità.
E' possibile che Scorsese ci suggerisca che c'è un'altra strada, più tortuosa, più difficile, un modo di vita che interroga profondamente anche l'uomo occidentale contemporaneo. Forse, tanto per i cristiani, quanto per chi non lo è, è possibile pensare il silenzio di Dio vivendo e accettando valori totalmente formalizzati come quelli giapponesi, rituali che preservano la società dal nulla e dalla mancanza di un glorioso principio creatore.



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