"Com'è fragile la vita, se la si abbandona"
J. Saramago, Cecità
C'è un bivio a Dipsizgol, forse simbolicamente a metà tra la cosmopolita e progredita Istanbul e la rigida e ortodossa Ankara, quel bivio è il crocevia di due destini speculari: quello di Seher e Nihat. La narrazione di Esmer ce li fa cogliere nel mezzo del loro vissuto, la loro interiorità complessa ci è già sbocciata rigogliosa di fronte agli occhi all'inizio del film. I protagonisti hanno un passato che solo un po' alla volta riusciamo a decifrare. Nihat, con la sua valigia guadagna la sommità di un'alta collina di un bosco, prendendo possesso della torre di guardia e del suo nuovo lavoro di guardiano, la sua coscienza tormentata non ci sfugge tra i silenzi del bosco, le sue attività ripetitive solo saltuariamente turbate dai rapporti via radio. Seher oscilla le sue attività tra una svogliata guida turistica negli autobus della zona e il governo di una cucina di un ristoro sulla strada, ma possiede un corpo che la tradisce e che non sfugge ad un uomo che è abituato ad osservare. Seher è incinta, ma non è una gravidanza voluta, ospite in casa dello zio materno è stata violentata da lui, ne apprendiamo crudamente la faccenda mentre lei la sbatte in faccia alla madre ignara, che non comprende la sua scelta di abbandonare l'università. "La tua sicurezza mi ha fregata". La casa familiare e il conformismo religioso sono ancora una volta sotto accusa nel cinema turco come mi era capitato di assistere in
Sibel. Comincia una lenta, agonica lotta tra la donna e il proprio corpo in metamorfosi, ma niente a che vedere con il dramma trasfigurato in favola postpunk del
Titane della Ducournau, il mostro è già dentro la realtà, nel bigottismo della famiglia, nell'ortodossia della religione, non c'è bisogno di storpiarne e amplificarne la portata.
Una donna si rifugia in un magazzino per subire le doglie violente del parto, afferra una coperta, si reca in uno scantinato e da sola, con le sue sole forze, dà alla luce un bambino, lo avvolge nella coperta sulla quale lo ha concepito, e infine lo abbandona in un parcheggio, non può esserci qualcosa di più importante di questo, questa realtà non può essere moltiplicata, trasfigurata, artefatta, essa appartiene integralmente al dramma di quella donna. Nihat osserva e forse comprende, accompagna prima la donna presso il suo rifugio e poi torna con il bambino. Inizia un complicato cammino di pacificazione e presa di coscienza con i mostri del passato. E già perché anche Nihat fugge da qualcosa. Una notte c'è stato un incidente, questo è ciò che risponde al suo collega che chiede che fine abbiano fatto sua moglie e suo figlio. Lui era alla guida, forse era stanco. Come per Seher, il regista fa di Nihat il narratore-medium di uno scomodo passato. Eccoli dunque, purgati dei loro drammi e delle loro sventure, fragili, l'uno di fronte all'altro. La tempesta che si è abbattuta sulla loro torre sopra la collina è di certo stata violenta e ha messo a soqquadro tutto ciò che l'uomo aveva lentamente disposto e ordinato, eppure una coperta sulle spalle nel freddo della notte suggerisce che, a Dipsizgol, ci sia un bivio dove i vicoli ciechi imboccati dagli uomini in fuga attraverso le tortuose e complesse vie della coscienza sfocino nel perdono e nella riconciliazione con il proprio passato.
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